Da stigma sociale indelebile, l’odore del lavoro diventa segno distintivo del «fatto a mano» e del sapere artigianale

Il lavoro occupa una parte rilevante nella vita umana, tanto da plasmare il nostro corpo e le nostre identità sociali. Opera su di noi non solo una trasformazione cognitiva, ma anche una vera e propria modellazione fisica mediante le posture e i gesti che quotidianamente ripetiamo, e persino attraverso gli odori che assorbiamo dagli ambienti e dai materiali con cui entriamo in contatto. Finiamo così per portare addosso, impresso sulla pelle, il segno della nostra operosità anche sotto forma di impalpabile traccia aromatica. Questa impronta era certamente più presente in passato quando l’esigenza di lavarsi era meno sentita e la possibilità di farlo era ridotta. Come scriveva Piero Camporesi in La carne impassibile:

«Mai come nella vecchia società, dove ogni corporazione, ogni mestiere, ogni professione era calata in un particolare bozzolo aromatico, il naso e l’odorato erano strumenti infallibili d’identificazione sociale e di riconoscimento professionale».

Se oggi volessimo sapere come le persone si relazionavano con questi bozzoli aromatici, dovremmo considerare non tanto gli stimoli olfattivi che si suppone fossero presenti negli ambienti di lavoro, quanto gli odori che le persone notavano e che quindi entravano attivamente nel vissuto personale suscitando reazioni, pensieri, persino litigi e conflitti di classe di cui ci è rimasta una testimonianza scritta e iconografica. Come afferma William Tullett, una storia sociale degli odori è soprattutto una storia dell’attenzione verso gli odori. E l’attenzione dei nostri predecessori si è per lo più soffermata sugli odori capaci di suscitare, oltre al disgusto, anche una preoccupazione sanitaria. In
questa prospettiva, alcune professioni erano particolarmente osteggiate, come quella dei conciatori e dei tintori…

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