Non sono una di quelle persone che riesce a datare i propri ricordi, ma in questo mi viene in soccorso la memoria olfattiva, in particolare quella legata ai profumi. Non credo di essere l’unico a cui succeda di ritrovarsi alle superiori, sui banchi di scuola, dopo avere sentito il profumo che indossava l’insegnante di inglese. Sono cresciuto in un paese piccolissimo immerso nella campagna Toscana, sulle rive dell’Arno, e a casa nostra i profumi sono sempre stati banditi a causa di una ipersensibilità di mia madre.
Unica eccezione qualche leggera colonia alla lavanda. È per questo che fu un vero shock olfattivo quando provai per la prima volta Fahrenheit di Christian Dior (del 1988), regalatomi da un caro amico alla vigilia della mia partenza per Milano, dove sarei andato a studiare illustrazione.

Un profumo che raccontava una storia, che racchiudeva un universo narrativo. Raccontava di un moderno dandy con un mazzolino di violette all’occhiello e dei club con poltrone di cuoio nei quali si muoveva con sensualità felina. Da allora non avrei mai più visto il profumo come un semplice accessorio da toilette, ma come un mezzo espressivo per raccontare qualcosa che a volte può diventare arte.

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